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Lettera aperta al Maestro Juvarra

martedì 14
feb 2012
Dal libro "Come Canti? Scopri la tua voce" di Antonella Neri ed. Ut Orpheus
 
Cantare, decantare, incantare - Ed. Ut OrpheusUna "quasi recensione" dell'ultimo importante libro del Maestro Antonio Juvarra:
"Cantare, decantare, incantare" ed. Ut Orpheus

Carissimo Maestro,
ero pronta a dedicarmi ad una recensione del tuo ultimo libro "Cantare, decantare, incantare” e ne ho iniziato avidamente la lettura.
La magìa delle "Riflessioni figurate sul canto" mi aveva talmente rapita che non vedevo l'ora di farmi sedurre ancora.
Ma non posso farlo. Così come non posso leggerlo prima di addormentarmi: mi toglie il sonno.
Il tuo modo disinvolto e profondissimo di parlare di canto tocca delle corde che scatenano forti emozioni legati a importanti ricordi.
Quindi non parlerò del tuo libro.
Ti scrivo invece perché credo, immodestamente, di avere un "argomento" a spiegazione della decadenza del Belcanto così lucidamente analizzata da te.
E credo anche, immodestamente, che lo stesso "argomento" possa contribuire a spiegare la fioritura e la diffusione dei metodi che tu definisci "meccanicistici" che, come appassionatamente sostieni, niente hanno a che fare con la dimensione più autentica del canto a sua volta legata alla complessa coordinazione psico-fisica del gesto vocale.
Di questo argomento tu non parli mai in modo diretto, è un filo conduttore discreto e impalpabile. Proprio come la luce del suono puro così spesso da te evocata.

Prima però ho bisogno di dirti i motivi per i quali non posso parlare del tuo libro, ma solo illustrare il mio Argomento.
Per fare questo, è necessario, se me lo permetti, ch'io ti racconti qualcosa in più di me.

Dopo un diploma inutile al Conservatorio, Ho studiato canto a Firenze con Margherita Rinaldi. Una cantante dalla voce limpidissima e dalla tecnica perfetta: una Belcantista pura. Si ritirò a soli 48 anni, il perché non lo so.
La lezione era una specie di tortura sottile e continua in cui differenze che a me sembravano impercettibili per lei erano grandi progressi o deludenti passi indietro. Per tutto il primo anno non ruscìi proprio a capire cosa dicesse, cosa dovessi fare. Ogni tanto qualche frase enigmatica si spegneva nella coda di un vocalizzo:
"Il coraggio di non fare niente", "la libertà di muoversi in uno spazio piccolissimo" "il suono nè avanti ne indietro ma lì dov'è" "lo spazio è solo dalla linea dal palato in su, non cercare sotto perchè non troverai nulla". Io registravo diligentemente ogni lezione che riascoltavo in albergo o in treno. Studiavo, confrontavo, analizzavo.
A volte mi veniva da piangere, e leggendo il tuo libro, solo adesso, ho capito perché.
Margherita era una persona specialissima: oltre che per la incredibile purezza della voce anche per il suo carattere così etereo, fragile, solare e un po' tormentato ad un tempo. La scoperta della voce e del suono è stata per me un percorso molto lento, fatto di piccole conquiste e di molto Vaccaj. Ho imparato guardandola e imitandola. Non potrò mai dimenticare la sua partecipata esecuzione di "Lascia il lido e il mare infido". E i suoi occhi lucidi in "Se tu m'ami". Ho fatto molti sforzi e riempito altrettanti quaderni per cercare di ridurre in concetti e in percorsi ripercorribili ciò che mi sembrava di aver assimilato.
Ho letto moltissimi libri ( tra cui il tuo primo "Il canto e le sue tecniche") per trovare un conforto alle mie deduzioni.
Seppure lentamente, progredivo.
La mia voce si faceva strada nonostante i miei tentativi di darle connotazioni, attributi, aggettivi, caratteristiche, classificazioni, qualità. Nonostante la vivisezione cui la sottoponevo. Lei aveva voglia di cantare. E a dispetto della mia smania di controllo, ci riuscì.
Ecco cosa scrivevo a Giulia, la mia prima insegnante divenuta in seguito mia confidente e amica.

Cara Giulia,
mi sembra di non essere più felice quando canto.
Ormai comincio gli esercizi col timore di ritrovarmi in quelle difficoltà che mi danno tanta pena.
Penso agli acuti, a quella sensazione di chiusura in gola, alla fatica di tenere bene un suono e di spaziare in tutta la mia estensione…
Se smetto qualche giorno, poi le cose funzionano meglio. Ma presto ricado negli stessi errori. Sono nervosa, studio con ansia, vorrei tutto subito. Mi registro sempre, come mi hai consigliato, ma il più delle volte mi riascolto senza sentire, tanto le cose non cambiano!.
Ho provato a lasciare Donna Anna e a riprendere arie più facili, per ritrovare le sensazioni giuste che mi avevano dato tanta fiducia e incoraggiato a osare.
Ma non sono contenta.
La cosa che mi disturba di più è che la mia voce spesso sembra non rispondere ad alcuna logica. Studio bene (o almeno mi sembra)..
I vocalizzi giusti, graduali: legato, agilità, salti, note tenute. Poi qualche recitativo e un’aria. Tutto con la massima attenzione. E la voce non va!
L’altro giorno, poi, è successo un fatto strano.
Non avevo voglia di studiare.
Allora ho voluto provare “Mi chiamano Mimì” con la base (!) e, (incredibile) tutto ha funzionato alla grande! Sapessi com’era bello il si bemolle tenuto, limpido, nutrito, e i fiati lunghi senza fatica! Ne sono stata contentissima ma subito dopo anche arrabbiata: possibile che dopo tanto studio debba sperare ancora nella “giornata buona”?
No, non è possibile, piuttosto mando tutto a monte e smetto.
Il canto in tutti questi anni è sempre stato per me un pensiero felice, luminoso, quasi un segreto del cuore.
Come le cose belle cui pensano i bambini prima di addormentarsi.
Se non può essere così, non ha senso.
Non dirmi che mi arrendo o che devo andare avanti con forza e grinta.
Il fatto è che io ho proprio voglia di arrendermi! Questa dimensione volitiva sembra non appartenermi più. Non so bene come spiegartelo: è come se dovessi cambiare qualcosa nel mio atteggiamento mentale. Piuttosto che “lottare per ottenere “, vorrei imparare ad aspettare che le cose arrivino al momento giusto, quando e se devono arrivare.
Forse sono solo stanca. Comunque scoraggiata.
Mi prenderò qualche giorno di pausa. Il prossimo concerto è tra un mese. Posso concedermelo.
Ciao e grazie per la pazienza con la quale mi ascolti.



Rileggendo oggi capisco che ero pronta a fare "il grande passo". E riconosco in me il disagio di tanti ragazzi (ma anche signore mature) che ho ascoltato e che sono poi venuti a lezione da me.
Ci vollero più di tre anni perché la voce diventasse protagonista e relegasse al suo giusto ruolo di comprimario il mio agguerrito emisfero sinistro.
Finalmente cantavo. Potevo, come dici tu, "lasciar funzionare" la mia voce.
In poco più di un anno ho studiato (per intero, compresi recitativi e "tagli"): Il matrimonio segreto, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, I Puritani, La sonnambula, l'Elisir d'amore, La bohème, Giulio Cesare, I Capuleti e i Montecchi.
Un giorno a lezione mandai in frantumi un oggetto di coccio con un acuto.
Ma fu Bellini a farmi tornare la paura: tale fu lo struggimento che provai nel cantare il duetto: "Son geloso del zeffiro errante", anzi fu il duetto che cantò me. Fu la musica e l'incantevole vocalità belliniana a decretare la mia definitiva resa.
Ricordo la Callas, in una illuminante intervista dire: "Non devi fare niente, nella musica c'è già tutto, è la musica che ti suggerisce intenzioni, gesti, accenti: compito dell'artista è aprirai all'ascolto profondo di ciò che è scritto nella musica".
L'esperienza (che tu definiresti "estatica") di cantare semplicemente "dentro" la musica e di esserne completamente coinvolta rappresentò per me anche un momento di insospettata sintesi tecnica. Tutto quello che avevo studiato per anni, la posizione del suono, l'equilibrio del fiato, la fluidità e la chiarezza della pronuncia, il legato, tutto si coordinò in un momento che coinvolse anche gli altri presenti(insegnante e pianista). Eravamo tutti empaticamente e psichicamente uniti.
Mi rendo conto adesso che l'elemento determinante che rese possibile quella esperienza così appagante fu il fatto di aver smesso di anticipare le sensazioni e soprattutto le intenzioni: al controllo del "prima" si era sostituita la "coscienza" del mentre.
La differenza è sottile ma fondamentale. Tu la descrivi benissimo quando parli del pre-vedere e del pre-occupare.
Ed è proprio a causa di questa sottile ma fondamentale differenza tra controllo e coscienza che è stato possibile, in tempi moderni, pensare di poter destrutturare il gesto e il comportamento vocale, con l'utopia di un controllo diretto dei muscoli e dell'intero sistema-canto.
Questo tentativo, su cui si fondano molte di quelle tecniche che tu così aspramente avversi, è anch'esso il frutto e la contropartita che dobbiamo inevitabilmente pagare all'epoca del dominio tecnico e tecnologico da una parte, e dalla paura di di perdere il controllo dall'altra.
Sono le sfumature sociologica e psicologica dell'unico leitmotiv del nostro modo di vivere.


Prevalentemente femminile e abbondantemente indagata, la paura di perdere il controllo, dell'imprevisto, del problema e soprattutto il non essere in grado di affrontarlo genera una soffocante, spesso compulsiva quindi insopprimibile, esigenza di spiegazione, razionalizzazione, classificazione e organizzazione cui non si sottrae neanche la performance artistica.
E cosa sono le “figure obbligatorie” se non un impressionante (e forse inconscio) risvolto di questo desiderio/bisogno/necessità di "mettere in ordine" applicato al canto?
E, di contro, nella loro schematica e orgogliosa diffusione, come non vedere la (illusoria) convinzione di esser riusciti a soddifare questa necessità?

Tornando all'aspetto sociologico , per dirla con Galimberti*, siamo nel periodo del capovolgimento del rapporto tra natura e tecnica, in cui il rapporto con la natura si fonda sul principio del suo dominio, e in questa smania di controllo e dominio la scienza vorrebbe atrofizzare e sottrarre anche al canto gli schemi percettivi e intuitivi.
Le tecniche vocali "moderne" (e guarda caso sono nate in Occidente e in gran parte da studi di importanti personalità femminili) accolgono ed esasperano questo tentativo, e proprio a causa dell'intrinseca indomabilità della natura del canto, trovano linfa inesauribile e schiere di seguaci innocentemente e sinceramente speranzosi di trovare “la ricetta”, la soluzione scientifica, e quindi sempre disponibile, a questioni che hanno a che fare invece con la sfera percettiva e sensoriale, quindi non classificabili scientificamente e ordinabili razionalmente.
Ma è una strada senza uscita, perché il canto è l'unico "strumento" cui non serve la tecnica, così concepita. Per tanti motivi.
In primis perché il cantante non ha uno strumento diverso da sé da suonare e dunque non deve sviluppare abilità tese alla raffinata padronanza di un oggetto esterno.
Poi luogo Il canto è fatto di gesti. Il gesto per sua propria natura è generato da complesse coordinazioni muscolari stimolate da idee (come diceva Caccini :"L'idea è creatrice di vocalità" e non è casuale che ancora oggi il ricorso alla sfera immaginifica sia un elemento basilare dell'insegnamento del canto) e il tentativo di ricondurre il gesto vocale alla somma o alla concomitanza di singoli movimenti è destinato al fallimento proprio per la sua stessa natura  e di tutti i "gesti corporei" complessi.
Ed è questo il motivo per il quale la scienza non può applicarsi al canto: tende infatti alla destrutturazione di un comportamento che solo nella coordinazione trova la sua ragione d'essere e la sua unica possibilità di esistere.
Ancora, il canto è l'unico strumento che non si può veder funzionare ma solo "sentire", "percepire", far affiorare alla coscienza.

Il canto, tra le espressioni artistiche è quella che aderisce alla concezione greca della natura, concepita come orizzonte inoltrepassabile, che non si può dominare ma solo svelare. La verità come svelamento della natura e non come dominio.
Occorre dunque spostare il fuoco dell'attenzione dal controllo alla coscienza, dall'indagine alla scoperta, in un percorso lento e paziente condotto con l'atteggiamento dell'esploratore piuttosto che del conquistatore.
Mi sento di dire, e ti prego di perdonarmi per la libertà che mi sono presa scrivendo questa lettera, di aver compreso il profondo senso del tuo "cantare naturale" che , lungi dall'essere una semplificazione filosofica cui qualcuno vuole ricondurre il tuo pensiero, costringe piuttosto ad un percorso inverso, scomodo, lento, umile, profondo che non si serve di scorciatoie scientifiche o pseudo-tali.

Grazie per aver detto così bene che il canto appartiene ai cantanti, e soprattutto a quei cantanti che vogliono/possono/riescono a percepirsi sensorialmente, e che quotidianamente cercano anche di guardarsi dentro. Senza telecamere.


In sostanza, lo studio del canto è la ricerca continua, ostinata
dell’eco fisica e metafisica della voce.
(Giacomo Lauri Volpi)**



P.S. Grazie soprattutto per l'immagine della pallina sullo zampillo d'acqua, funziona davvero.


*Umberto Galimberti “Psiche e techne” - Ed. Feltrinelli
** Giacomo Lauri Volpi: “Voci parallele” - Ed. Bongiovanni


© Ut Orpheus - Riproduzione riservata
 
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