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Le interviste

La visione intimistica del canto di Giuseppe Filianoti

martedì 20
lug 2021
Ho ascoltato per la prima volta Giuseppe Filianoti parecchi anni fa, in un recital che tenne nella sua Calabria, all’Arena dello Stretto. Fu una serata magica: sullo sfondo del mare, di notte, illuminato dalle luci della prospiciente Sicilia, una dopo l’altra si diffondevano e giungevano alle orecchie degli spettatori le note delle arie tra le più belle e coinvolgenti dell’opera Italiana. Una suggestione continua che culminò nell’esecuzione di “È la solita storia del pastore…” da L’Arlesiana di Francesco Cilea, calabrese anche lui.
Mi colpì il suo sguardo: il “mix” di stupore e magia si leggeva nei suoi occhi, come fosse un tutt’uno con la musica, con le parole, con le intenzioni del compositore, in una sorta di trance interpretativa che nulla concedeva all’esibizionismo, all’auto-compiacimento, al virtuosismo tout-court. E sì che tutto il programma ben si sarebbe ben prestato allo sfoggio delle sue indiscutibili doti vocali.

Buonasera e grazie per aver accettato il mio invito. I lettori di
www.cantarelopera.com  saranno certamente felici e curiosi di leggere quello che vorrà dire.

Entriamo subito in argomento: Qual è l’elemento più importante nel canto secondo lei?

Senza ombra di dubbio la dimensione spirituale.
Un po’ come Lauri Volpi. A un certo punto della sua vita lui iniziò a scrivere. Quando lessi i suoi libri, molto tempo fa, sulle prime non capii. Mi chiesi come mai questo tenore, che è stato molto apprezzato oltre che per la voce anche per la sua tecnica, sentisse il bisogno di mettere un accento così forte sull’impronta spirituale. Mi riferisco, ad esempio a I misteri della voce umana, L’equivoco, A viso aperto. A prescindere dalla connotazione cattolica presente nelle sue pagine, il concetto principale è che tutte le arti e in particolare la musica sono connesse alla spiritualità, ma il canto ha un carattere più profondo, più rivelatore: se vuoi conoscere veramente una persona ascolta come canta!
Non si parla ovviamente della tecnica, questo è un aspetto che riguarda un’altra sfera.
Oltre alla vastità del genere sacro nel repertorio vocale, anche nella cultura popolare il canto è usato per pregare, prenda ad esempio lo spiritual afro-americano. Ma anche nell’opera, cantare significa dare voce e vita a esperienze e personaggi sempre nuovi, e per farlo è necessario entrare in contatto con la dimensione spirituale. Se si canta non si può prescindere da questo.

Ne parlo subito anche ai miei allievi, fin dalle prime lezioni: voglio che si rendano conto e abbiano sempre ben chiaro qual è il “ruolo” del cantante nella musica, ancor prima di parlare di tecnica o repertorio. Se ci si sente attratti dal canto e il canto è in qualche modo una “necessità” espressiva, bisogna tener presente da subito questo elemento fondamentale.

 
Quindi anche per lei iniziare a cantare è stata una “necessità”?
Io già cantavo all’età di sei anni. Per me cantare era un modo di esprimermi: se ero felice cantavo, se ero triste cantavo, ogni emozione si veicolava attraverso il canto. Fare il cantante non è stata una scelta, è venuto tutto da sé. Ho poi cercato ovviamente di fare le scelte più giuste, di studiare con tenacia, impegno e volontà, di capire se la strada intrapresa fosse quella corretta e “aggiustare il tiro” quando era necessario.
Ma, ripeto, c’è un livello “altro” che alimenta questo percorso.
Cantare ti aiuta anche a conoscerti meglio. È un viaggio nella profondità dell’anima.
Tutte le vicende della mia carriera, nel bene e nel male, sono anche state un modo per pormi davanti a me stesso e mi hanno aiutato a capire il perché di certi momenti e situazioni. E non mi riferisco solo a fattori squisitamente tecnici o vocali: la tecnica non serve a niente se non hai  predisposizione psicologica, emotiva e dello spirito corrette. La dimensione trascendente è sempre presente nella musica.


Anche nell’ambito didattico ha questo approccio?
Esatto. Non solo deve essere presente, ma deve essere “insegnato”, sollecitato, stimolato. Fin dalle prime lezioni. Perché da qui passa anche la possibilità di capire la bellezza di un suono che si riesce a produrre e come il corpo riesca a farlo.
Si canta con tutto il corpo. Le contratture che abbiamo nel corpo, nella postura, nel modo di porgerci agli altri, sono presenti di riflesso anche nella voce. Un bravo didatta deve essere in grado di trovare la strada per entrare in contatto con l’allievo, una via empatica per capire la sua emotività, i punti deboli sui quali lavorare e quelli da valorizzare; quali le qualità che emergono e invece quali le difficoltà che possono impedire una piena e completa esplorazione delle proprie possibilità vocali. Alla “liberazione” di queste contratture psico-fisiche è necessario dedicarsi fin da subito in modo che anche l’aspetto tecnico possa progredire più facilmente. Anch’io ho fatto questo percorso, ho vissuto sulla mia pelle questo processo di “semplificazione”, di ritorno alla naturalezza, un po’ come quando si è bambini e si affrontano tutte le esperienze senza pregiudizi e impalcature mentali. Così h
o trovato la risposta ai tanti “perché” cui mi sono trovato davanti. Ho sempre studiato molto, ho ascoltato la voce e le parole di tanti colleghi cercando di cogliere il significato essenziale di ciò con cui mi trovavo a confrontarmi.

Lei prima ha citato Lauri Volpi e ha fatto riferimento alla riscoperta di una naturalezza che può essere aiutata dalla dimensione spirituale del canto. Questo è stato un suo approccio che si è formato spontaneamente o ci è arrivato con l’esperienza?
Penso che c’è chi è più cosciente e chi è meno cosciente, c’è chi ha più o meno sensibilità. Ma è ovvio che un musicista è una persona molto sensibile, altrimenti non farebbe il musicista. Molto spesso questa particolare sensibilità viene in qualche modo smorzata, repressa, appiattita dalle circostanze della vita o anche da noi stessi, per evitare di essere inondati dalle sensazioni o di affrontare i nostri problemi.
Io ho sempre saputo di appartenere alla “categoria” delle persone sensibili. Ma non capivo come usare la mia sensibilità, dove dirigerla. Appena ho cominciato a cantare, a diciannove anni, ho subito trovato il modo di veicolarla nell’espressività del canto. Ma non me l’ha insegnato nessuno, è venuto spontaneo, da sé.


Infatti quando lei ha fatto il suo ingresso nel panorama lirico è stato subito apprezzato perle sue spiccate qualità espressive, per l’essere sempre “dentro” a quello che canta, senza mai fare “il mestiere” del cantante, con una irrinunciabile priorità al senso della frase musicale e della parola cantata.
Come ho detto prima, per me il canto è una sorta di “preghiera”.

Quanto conta lo studio e quanto l’istinto per arrivare a certi livelli espressivi?
È questione di attitudine. C’è chi ha più talento e doti in questo senso, ma nessuno può prescindere da uno studio approfondito della musica e dello spartito.
Prima parlavamo dell’approccio didattico: se io chiedo a un allievo che faccia uno, solo un suono, ma che senta profondamente suo e nel quale ci metta il massimo in termini di qualità, lo sto già stimolando a in questo senso.
Poi inizia un altro tipo di lavoro fondamentale, che mi è stato insegnato e che ho percepito e appreso anche ascoltando i grandi cantanti del passato: e cioè il “gioco” dinamico sulla parola, sull’accentuazione della parola. Solo per fare due nomi, Renata Scotto e Leyla Gencer sono due altissime maestre in questo ambito.
È la scuola “antica” del cantare sull’accento della parola che, purtroppo, non esiste quasi più. I ragazzi non sanno più, ad esempio, come una vocale pronunciata in maniera corretta possa dare il valore giusto alla parola; o quanto una virgola o un respiro nel testo sia fondamentale per rendere il senso di una frase.


Che spazio occupa la tecnica in questo suo approccio olistico al canto?
La tecnica è fondamentale, ma se non è unita agli altri aspetti non da sola non basta.

Come definisce la tecnica vocale?
Tecnica è riuscire ad avere consapevolezza del proprio strumento interno. A “sentire” il suo funzionamento. A imparare a riconoscere quelle che si chiamano “posizioni” del suono, come vengono realizzate. Sentire come “atteggiare” il proprio corpo in un certo modo per produrre il suono che sta cercando. E quindi riprodurre quegli atteggiamenti in modo volontario e consapevole.
Non si tratta di dare istruzioni ai muscoli: il canto è dinamico, non è meccanico. Conosciamo la meccanica della voce, ma l’insegnamento non può essere basato su questo.
Faccio un esempio: se dici ad un allievo “alza il palato” lo metti solo in difficoltà. Piuttosto l’insegnante deve suggerire un’idea, delle immagini che consentano la coordinazione necessaria per emettere quel suono o superare un problema. È importante però usare la giusta terminologia, per non creare confusione. Ad esempio a mio avviso andrebbero abolite le espressione “cantare in maschera” o “affondo”.  Non si possono dare degli input così diretti.


Può fare un esempio di un’immagine che lei usa a lezione?
Suggerisco sempre di immaginare uno spazio arretrato, dietro la parte alta della lingua lasciata libera, non schiacciata, dove si formano le vocali. Oppure, per aprire la gola, di lasciare sempre che “l’automobile” (il suono) viaggi in un tunnel, adeguatamente ampio, d’autostrada (la gola) . Respirare profondamente, come prendere una boccata d’aria, e pensare che il canto deriva dal parlato aggiungendo un po’ di spazio. Ma non troppo…
C’è comunque da valutare sempre le caratteristiche della persona: alcuni risolvono in maniera spontanea le difficoltà e non serve complicare le cose.

Lei ha studiato anche con Alfredo Kraus. Durante una sua masterclass, riferendosi alla voce, lo sentii ripetere in maniera costante tre frasi: “más clara”, “más pequeña , “más  alta”. Cosa ne pensa di queste indicazioni?
Lui privilegiava il suono chiaro, “a fuoco”, lo “squillo”, e teneva a dire che i tenori ormai sembravano tutti baritoni. A un certo punto, insegnando, ha esasperato questo aspetto conferendogli anche una certa connotazione nasale che non è stata apprezzata da tutti. Credo però che questo modo di esprimersi facesse riferimento anche alla conoscenza della meccanica laringea che lui aveva studiato. Insisteva sul sollevamento del palato molle, ottenuto anche schiacciando un po’ gli occhi. A mio parere la meccanica la devi conoscere, ma non c’è bisogno di insegnarla in maniera diretta, né di fare riferimenti espliciti. Kraus è stato un grande cantante, ma come tutti i grandi cantanti forse non poteva avere consapevolezza di tutto ciò che faceva perché non ne aveva bisogno. Non è automatico che un grande cantante sia un buon insegnante. Allo stesso tempo dico anche che per insegnare devi saper cantare e aver fatto un’esperienza completa della fonazione. Anche perché l’esempio vocale è a mio avviso un cardine dell’insegnamento. Un esempio vale mille parole: non tutto si può spiegare. E spesso le condizioni fisiche e vocali cambiano da un giorno all’altro.

 

Le piace insegnare?
Molto, è bello cercare di trasmettere agli altri quello che hai accumulato in tanti anni di studio e di carriera.

Che tipo di repertorio bisogna studiare nei primi anni a suo parere?
La musica antica, la musica da camera. Quello che è importante è appropriarsi il più possibile del contenuto tecnico-musicale: prima di tutto il legato, le agilità, i salti…come si faceva nell’antica scuola di canto.

Le personalità più significative della sua formazione?
Anna Vandi, in Conservatorio. Poi all’Accademia della Scala Leyla Gencer, Riccardo Muti e Renata Scotto. Leyla Gencer era una insegnante alla vecchia maniera, esigentissima. Aveva una cura maniacale della parola, come ho detto prima. A volte mi faceva ripetere una frase tante volte, finché non ottenevo il risultato desiderato. Muti voleva che andassi sempre in sala gialla ad ascoltare tutte le opere che preparava per le performances scaligere. La Scotto mi ha insegnato tutto del fraseggio.

Un libro, un metodo che ritiene valido.
Senza ombra di dubbio, il “Metodo di canto pratico” del Vaccaj, se studiato bene e in maniera approfondita.

Secondo lei quanti anni sono necessari per formare completamente una voce?
Non è uguale per tutti.
Quello che vale per tutti è che non si finisce mai di studiare. È questo l’aspetto più impegnativo ma anche più affascinante dello studio del Canto.

 
Grazie a Giuseppe Filianoti per questo suo modo così originale e profondo di parlare di canto.
Con le sue parole accende una luce su alcuni aspetti spesso trascurati, che probabilmente, anzi sicuramente, fanno tutta la differenza nell’avvicinarsi all’Arte del Canto.

 
 
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